Il vero motore nello sport non è la massa muscolare, la resistenza o la gittata cardiaca.
Prima ancora del passo al chilometro, dei watt, della velocità media, del VO2 max e di altri parametri, esiste un fattore predominante.
Un elemento capace di influenzare più di tutti la nostra capacità di performare a livello sportivo.
E, ancor di più, di far funzionare l’attività fisica per i nostri obiettivi: dimagrimento, salute, benessere, prestazione e così via.
Ognuno è diverso, e non dobbiamo mai dimenticarlo.
La struttura base è la stessa per tutti: due gambe, due braccia, un cuore, le cellule, gli atomi, il DNA…
Nonostante condividiamo quasi tutto con i nostri simili, rimaniamo profondamente diversi l’uno dall’altro.
Infatti, veniamo esposti a fattori ambientali che modificano l’espressione dei nostri geni. Questi includono la dieta, il luogo in cui viviamo, le emozioni, il grado di stress, l’inquinamento ambientale, l’attività fisica e così via.
Due gemelli, anche se uguali nelle prime fasi di vita, iniziano a diventare diversi anche nell’aspetto, pur mantenendo una somiglianza elevata.
Uno dei due è in sovrappeso, usa farmaci, mangia in modo scadente, non fa sport. L’altro, invece, è fautore del wellness, si allena regolarmente e mangia in modo sano per i suoi obiettivi.
Il DNA, in questo modo, viene esposto a informazioni completamente diverse dall’ambiente e regola di conseguenza l’espressione dei suoi geni. Il risultato è un fenotipo che inizia a differire da quello del gemello: si chiama epigenetica.
Se questo aspetto è abbastanza chiarito nel campo della salute, con l’avvento della nutrizione e medicina personalizzata, non lo è ancora abbastanza nel campo sportivo.
Tendiamo, infatti, a imitare le raccomandazioni standard delle industrie dell’integrazione sportiva, dei team professionistici o di allenatori e nutrizionisti che seguono protocolli standardizzati.
C’è un esempio comune ed eclatante che mi capita spesso come caso-studio nel mio lavoro e di cui vorrei parlarvi.
È proprio quello di sportivi che, nonostante siano regolari con l’attività fisica, preparino competizioni e cerchino anche di curare la dieta, non vedono risultati a livello estetico, di circonferenza vita, massa grassa addominale e faticano a calare di peso.
Come è possibile che non riescano a eliminare quel grasso nell’addome e che il peso rimanga sempre uguale o vari di poco?
Il problema è che vengono seguite le raccomandazioni per la popolazione di sportivi élite e professionisti, o delle industrie alimentari e di integrazione classica.
In pratica, si consumano troppe fonti di carboidrati.
Il piattone di pasta per caricare i carboidrati, i gel da 30 g di carboidrati all’ora, la colazione con le fette biscottate e la marmellata, e gli allenamenti intensi, a volte troppo intensi.
Se l’obiettivo è definirsi, limare il peso, togliere il grasso addominale il più possibile, che è quello pro-infiammatorio e pericoloso per la salute e i nostri organi, non possiamo seguire le raccomandazioni valide per tutti o per la popolazione di atleti già in super forma.
Prima ancora di comprare il potenziometro, seguire una rigida tabella di allenamento con lavori specifici, scegliere la bicicletta da 10 mila euro o le scarpe in carbonio da 300 euro, sarebbe utilissimo investire in una corretta informazione e alimentazione personalizzata.
Nell’ultimo video sul canale YouTube analizzo lo stato della composizione corporea, di salute e di benessere generale di mio padre, atleta di 61 anni.
Dal test del capello, per esempio, sono emerse alcune carenze, che spesso ritrovo proprio in chi si allena con costanza e in sport di resistenza, come quella di zinco e vitamina K2, fondamentale per la salute cardiovascolare.
Il vero motore di ciascun individuo, in grado di predire un dimagrimento e risultato sportivo, e infine l’utilizzo corretto dei nutrienti che stiamo assumendo, è la sensibilità insulinica.
Cos’è la sensibilità insulinica e perché misurarla
L’insulina permette, infatti, l’utilizzo dei nutrienti a scopo energetico, riuscendo a svuotare il sangue dal glucosio e da altri carburanti come gli acidi grassi circolanti, per portarli nelle cellule al fine di essere ossidati.
Se, però, c’è anche solo una lieve resistenza insulinica, il processo è rallentato, e con l’aumentare della resistenza aumenterà la difficoltà di usare i carboidrati a scopo energetico.
Considerate che chiunque presenti la classica e famosa pancetta, uno strato visibile e protruso di grasso addominale, avrà un certo grado di resistenza insulinica.
Ma che cos’è la resistenza insulinica, tanto avversa al miglioramento fisico?
In realtà, si tratta di un processo fisiologico, naturale, che il corpo attiva quando si esegue attività fisica.
Ma l’insulina non dovrebbe favorire l’ingresso di zuccheri e molecole energetiche nelle cellule, specie le muscolari, per trarre ATP e sostenere la contrazione muscolare?
In realtà, avviene proprio l’opposto: durante l’attività fisica, specie di tipo aerobico e di resistenza, il corpo mette in atto una serie di sistemi che bloccano la produzione insulinica, causando resistenza.
Resistenza significa che l’insulina non riesce a comunicare con le cellule, o che il pancreas è bloccato nella sua produzione da meccanismi a feedback negativo.
L’insulina, infatti, è un segnale, uno dei più potenti, in pratica una chiave, e la serratura si trova su tutte le cellule del nostro corpo. Una volta che avviene il legame, la porta si apre, e le cellule iniziano letteralmente a cibarsi di glucosio e altre sostanze derivanti dal sangue, e in ultima analisi dal cibo.
Nel caso dell’attività, però, esiste un modo molto più rapido ed efficiente di portare carburante nelle cellule muscolari in attività, e non è quello mediato dall’insulina e quindi dal pancreas.
Queste cellule muscolari hanno sviluppato una capacità intrinseca per l’uptake (ingresso) di zuccheri dal circolo: i recettori GLUT-4. Sono recettori incredibili, chiamati proprio insulino-indipendenti, proprio perché non hanno bisogno della mediazione dell’insulina (la chiave) per nutrirsi.
Il glucosio ingerito dalle cellule serve a scopo energetico, mentre lontano dall’allenamento per la sintesi di glicogeno o glicogenosintesi. Il processo è invertito durante lo sforzo, in cui si verifica la glicogenolisi, ovvero la distruzione del glicogeno stoccato per fornire glucosio durante la contrazione.
L’insulina, infatti, porta un messaggio univoco alla cellula: bisogna stoccare (depositare) materiale energetico (perché abbiamo mangiato) in previsione di carestie (che oggi, peraltro, non esistono più nei paesi occidentali).
Il materiale depositato sono i grassi alimentari in forma di trigliceridi nel tessuto adiposo, ma anche una parte in quello muscolare (trigliceridi intramuscolo – IMTG), i carboidrati in glicogeno, e il loro eccesso sempre in trigliceridi. Anche alcuni aminoacidi detti glucogenetici possono essere convertiti in glucosio (zucchero) con la gluconeogenesi nel fegato, e anche alzare la glicemia.
Quindi, anche mangiare troppe fonti di proteine magre può alzare la glicemia, e alcuni pazienti non se ne capacitano pur non toccando fonti di carboidrati.
Questo era il messaggio metabolico. Il secondo messaggio è quello proliferativo. L’insulina infatti ha anche un’altra capacità, di cui si parla poco, che è quella di far dividere le cellule, proliferarle, e quindi dare iperplasia (aumento dei tessuti).
E l’insulina quando viene prodotta dal pancreas? Ogni volta che mangiamo, in misura diversa a seconda di quello che mangiamo, con picchi e cali o fasi più costanti.
Il macronutriente che più è in grado di stimolare il pancreas nel rilascio di insulina sono proprio le fonti di carboidrati.
Tornando all’esempio dello sportivo con grasso addominale che non vede risultati estetici e di dimagrimento, né di performance, infarcirlo di fonti di carboidrati non farà che peggiorare la sua condizione di iniziale resistenza insulinica, o comunque non migliorarla.
Infatti, la massa grassa a livello dell’addome circonda spesso gli organi e non permette la segnalazione organi-insulina, e quindi tessuti e cellule-insulina.
Se il segnale non arriva o è meno potente, cosa ci aspettiamo?
Lo abbiamo appena scoperto sopra: se i nutrienti non entrano nelle cellule per mancanza di segnale, inizieranno a salire nel sangue, il nostro serbatoio energetico.
Ecco il motivo per cui molti si ritrovano anche con una lieve iperglicemia, o il colesterolo sempre alto, e anche i trigliceridi, pur praticando sport.
Quando la resistenza insulinica è dovuta all’attività fisica, è acuta e fisiologica, perché il segnale che dobbiamo dare a tutto l’organismo e sistema muscolare è la contrazione, l’ossidazione energetica, il bruciare metaboliti e produrre energia (ATP), non certo accumulare riserve.
Si alza quindi un ormone controregolatorio, il glucagone, prodotto dal fegato, e la sua presenza in circolo è segno di attività fisica, bloccando la produzione insulinica.
Glucagone, insieme a cortisolo e adrenalina, sono quindi gli ormoni della risposta contro-regolatoria all’insulina: la risposta fight or flight, del movimento e della produzione energetica.
Quando però la resistenza insulinica diventa cronica, allora è un problema.
Non è più l’attività fisica a scatenarla, ma la presenza di grasso viscerale, il grasso che circonda gli organi, tipicamente addominale.
Una delle frasi che più mi capita di dire, e di ripetere, è:
“Se bruci male, non puoi riempire il serbatoio.”
Tradotto: se il tuo motore metabolico è inefficiente, soprattutto nel bruciare i grassi, riempirlo costantemente di carboidrati non risolverà il problema. Lo peggiorerà.
Il punto è uno: devi prima capire il tuo grado di efficienza metabolica.
E per farlo bisogna capire quanto sei sensibile all’insulina.
Come migliorare la sensibilità insulinica
Capito questo, è chiaro che se non siamo ricettivi ai carboidrati, aumentarne il consumo non ha alcun senso per migliorare la performance. Prima dobbiamo bruciare i grassi viscerali e in generale il tessuto adiposo, per usarli come energia.
E come si fa?
Sicuramente non alimentandosi ogni ora con gel e barrette da 30 o più grammi di carboidrati. Ho sentito di sportivi, anche con un po’ di sovrappeso, che vogliono dimagrire e arrivano a consumare 80-100 g di carboidrati l’ora.
È una follia instillata dall’industria alimentare e dell’integrazione sportiva.
Le due strategie principali per invertire la rotta sono:
- Allenamenti in zona aerobica (bassa intensità e lunga durata), per attivare il metabolismo lipidico;
- Dieta a basso contenuto di carboidrati, oppure ciclica, con momenti di scarico.
Come faccio a capire la mia sensibilità insulinica (cioè quanto è efficiente il mio motore)?
Ecco alcune opzioni pratiche:
- Misurare glicemia ed emoglobina glicata e verificare che sia ben al di sotto della soglia considerata normale
- Misurare l’insulina a digiuno: più è bassa, maggiore è la sensibilità insulinica.
- Calcolare l’indice HOMA, che mette a rapporto glicemia e insulina (valori normali: tra 0,23 e 2,5; sotto 1 = sensibilità ottimale, come negli atleti).
Nel grafico cartesiano sull’asse X c’è l’insulinemia a digiuno, sull’asse Y la glicemia.
Un individuo con buona sensibilità insulinica avrà una curva ripida (serve poca insulina per abbassare la glicemia), chi ha insulino-resistenza avrà una curva piatta (serve molta più insulina).
Come si migliora questa sensibilità?
Con l’allenamento, certo. Ma anche adattandosi a un regime low-carb.
Serve un periodo iniziale di adattamento in cui si introducono carboidrati alimentari sotto i 50 g/die, in alcuni casi fino a 20-30 g (chetogenica). Questo consente un switch metabolico, dove il corpo impara a usare gli acidi grassi come fonte primaria di energia.
Durante questa fase, si può vivere il classico keto-flu, ma non è necessario arrivare a produrre corpi chetonici per avere benefici: è l’adattamento che conta.
Una volta avvenuto, non ha senso tornare subito a infarcirsi di carboidrati, soprattutto durante l’allenamento.
È qui che inizia la vera ottimizzazione: sfruttare lo switch metabolico.
Per esempio, si possono fare sessioni in zona 2, precedute da un pasto a base di grassi e senza carboidrati, o in stato di semi-digiuno.
Durante lo sforzo, se è di tipo aerobico, meglio evitare gel, banane e barrette energetiche piene di zuccheri.
Se l’allenamento è sostenibile (es. corsetta di 40-60 minuti, pedalata di 1h30-2h, nuotata di 1h), si può tranquillamente evitare di alimentarsi.
E se hai paura del catabolismo muscolare?
Nessun problema: ci sono grassi specifici per allenamento, digeribili rapidamente, da usare anche durante.
Il vero limite dei grassi, infatti, è che di solito richiedono lunghi tempi digestivi.
Esistono tuttavia gli MCT (acidi grassi a media catena), che sono diversi dai classici: non richiedono chilomicroni, entrano rapidamente nel fegato (come il glucosio), e non hanno bisogno dell’insulina per entrare nelle cellule.
Inoltre:
- Entrano nel mitocondrio senza carnitina (bruciati più velocemente),
- Forniscono più energia dei carboidrati (6,4–6,8 kcal/g),
- Risparmiano glicogeno e aminoacidi muscolari.
Gli MCT C8 e C10 sono quindi un’alternativa reale, concreta e strategica per chi vuole ottimizzare il metabolismo dei grassi, preservare la massa magra, e migliorare la sensibilità insulinica.
Esiste un olio specifico (olio MCT) che puoi sciogliere in borraccia al posto di maltodestrine, ciclodestrine e zuccheri vari.
Puoi anche aumentare l’apporto orario con gel di MCT puro (es. Shot MCT Pure, 11 g di grassi per stick).
Oppure scegliere barrette solide a base di MCT, senza zuccheri, come barrette lipidiche o proteiche (carne secca, frutta secca ecc).
Con queste soluzioni puoi sostenere anche allenamenti lunghi, non solo uscite da un’oretta.
Chetoni esogeni, carnitina, caffeina, sodio
In alcuni casi, si può massimizzare il metabolismo lipidico e l’efficienza nell’uso dei grassi a scopo energetico con l’integrazione di chetoni esogeni, prima o durante l’allenamento (o in entrambi i casi).
I chetoni vengono naturalmente prodotti dal fegato come carburante alternativo al glucosio, quando le riserve di zuccheri si esauriscono — come accade negli sport di durata se non ci si è riforniti adeguatamente di carboidrati.
Tra le forme disponibili, gli esteri sono i più efficaci rispetto ai sali.
L’assunzione di chetoni esogeni può essere utile per diversi motivi:
- Sostenere il metabolismo dei grassi: Forniscono una fonte energetica alternativa senza dipendere dai carboidrati. Può essere una strategia per risparmiare glicogeno e stimolare l’uso dei grassi.
- Aumento della disponibilità energetica: Sono un combustibile efficiente e talvolta più rapido da usare rispetto agli stessi grassi, se assunti in forma concentrata.
- Miglioramento della performance aerobica: Durante allenamenti in zona 2, i chetoni possono fornire un boost energetico senza interrompere il metabolismo lipidico.
- Riduzione della fatica percepita: Possono contribuire a mantenere lucidità mentale e ridurre la stanchezza muscolare.
Se questo argomento ti interessa, potrei approfondirlo in una newsletter dedicata — basta rispondere con un semplice “mi interessa” e saprò di cosa parli.
Oltre ai chetoni, ci sono altre due molecole che supportano l’ossidazione dei grassi:
- L-carnitina: Favorisce il trasporto degli acidi grassi nei mitocondri per la produzione di energia. Un dosaggio tra 500 mg e 1 g, può essere utile prima o durante (in forma liquida) allenamenti prolungati.
- Caffeina: Stimola la mobilizzazione dei grassi e migliora la performance. È preferibile usarne una fonte naturale, come il caffè verde o una bevanda a base di caffeina, senza zuccheri aggiunti.
E attenzione al sodio!
Quando i carboidrati sono bassi (nella dieta o nel pre-allenamento), si perde più sodio, perché il trasporto sodio-glucosio (SGLUT1) è meno attivo. Di conseguenza, è fondamentale integrare elettroliti: sodio, magnesio e potassio, idealmente in una bevanda priva di zuccheri.
Grassi o carboidrati? Scegliere la giusta fonte energetica
Perché usare i grassi negli allenamenti in zona 2?
Nonostante siano un carburante relativamente “lento”, i grassi presentano numerosi vantaggi negli allenamenti a bassa intensità:
- Sostenibilità: Le scorte di grasso sono più abbondanti rispetto a quelle di carboidrati. L’energia è continua, stabile, senza picchi.
- Risparmio di glicogeno: Ideale per conservare i carboidrati in vista di sforzi più intensi.
- Compatibilità con la zona 2: La zona 2 sfrutta il metabolismo aerobico, perfettamente adatto all’ossidazione lipidica.
Nel ciclo di Krebs, la beta ossidazione dei grassi fornisce Acetil-CoA per produrre ATP, senza stressare le scorte di zuccheri.
Quanti grassi all’ora?
Dopo un corretto adattamento, si può arrivare anche a 0,5-1 g di grassi per kg di peso corporeo per ora. Ad esempio, un atleta di 70 kg può consumare 35-70 g/h.
Come? Con:
- MCT in borraccia (30 ml ≈ 28 g grassi)
- Gel MCT da 11 g grassi
- Barrette lipidiche
Tuttavia, se l’obiettivo è definizione, sensibilità insulinica e ossidazione dei grassi corporei, ha meno senso un’integrazione continua di lipidi. Il corpo può attingere alle sue riserve.
Se invece si vuole ottimizzare la resistenza più possibile, per sessioni lunghe e senza crolli, si può valutare l’integrazione di 20-40 g/h di MCT.
Ma attenzione a non mischiare tutto insieme: carboidrati veloci, chetoni e MCT rischiano di annullarsi a vicenda.
Ecco perché:
- I carboidrati hanno priorità metabolica: bloccano l’uso dei grassi e dei chetoni.
- L’insulina inibisce la lipolisi, rendendo inutili gli MCT se assunti insieme a zuccheri semplici.
- Se sei in chetosi, i carboidrati spostano il metabolismo sul glucosio, spegnendo la produzione di chetoni.
Come gestire al meglio questa strategia?
- Non mescolare carboidrati veloci e grassi/chetoni. Alternali in base all’intensità.
- Usa i carboidrati in modo strategico, nelle fasi finali o nei picchi dello sforzo, in salite, o solo per allenamenti ad elevata intensità.
- Adatta la nutrizione al tipo di allenamento: zona 2? si possono davvero valutare con l’adattamento MCT o chetoni. Allenamento misto? Inserire carboidrati dove servono.
Capire quando usare i carboidrati e quando affidarsi ai grassi (e ai loro alleati metabolici) è una delle chiavi per costruire un metodo efficace, personalizzato e sostenibile.
Allenarsi in zona 2 non significa solo andare piano: è un’occasione per “educare” il corpo ad essere più efficiente, a bruciare meglio e più a lungo.
Il carburante giusto, nel momento giusto, può fare la differenza.